“La fotografia è la mia sola lingua.
Io non faccio semplicemente delle foto. Io mi esprimo attraverso le foto”.
André Kertész
Robert Doisneau e André Kertész. 1975
Ho incontrato le immagini in bianco e nero di André Kertesz nel 1997 a Genova ad una mostra a lui dedicata dove sono stata conquistata da questo genere fotografico in modo totale, senza riserve. Kertesz scoprì e dimostrò l’estetica straordinaria che può produrre una piccola macchina fotografica; al loro apparire questi strumenti fotografici sembravano a malapena adatti per il tipico professionista a causa del loro approccio diretto al soggetto.
I professionisti dell’epoca di questo fotografo amavano descrivere in modo analitico, chiaro e preciso i loro soggetti, mentre ciò non interessava Kertesz, non lo convinceva la pura e deliberata descrizione analitica della realtà.
Iniziò a fotografare nel 1912 e da quel momento ricercò nella rivoluzione della visione ellittica il dettaglio inatteso, il momento effimero, non l’epica ma la verità lirica. Quando fu commercializzata la prima fotocamera Leica – 35 mm – nel 1925, sembrava che fosse stata progettata e costruita per l’occhio di André Kertesz. Come era accaduto al suo collega ungherese Moholy-Nagy, Kertesz scoprì ed amò fin dall’inizio il gioco tra modello e spazio profondo. Il piano del quadro visualizzato nelle sue fotografie è come un trampolino teso e resistente. In ogni sua immagine la metà opposta delle linee convergono verso un punto di fuga nello spazio profondo e l’altra metà della visione assomiglia alla rete intessuta da un ragno come superficie da cui penzola il soggetto come fosse una mosca catturata dal fotografo e dal piano visivo dello stesso.
Aggiungete a questa splendida ed originale qualità dell’invenzione formale di Kertesz un’altra dote meno percepibile e conosciuta di questo fotografo, meno analizzata ma non per questo meno importante: facciamo riferimento al senso della dolcezza della vita, di un piacere libero ed infantile verso la bellezza del mondo e verso la preziosità della vista che Kertesz possedeva come qualità intrinseche.
Disse di se stesso Kertesz: “Scrivo con la luce”.
In una delle più lunghe e produttive carriere che si conoscano Kertesz ha creato una vasta narrazione lirica che ha contribuito a plasmare la storia della fotografia. Ha usato la macchina fotografica per interrogare, registrare le conservare le sue relazioni con il mondo e per testimoniare la sua arte!
Nato nel1894 in Ungheria e morto nel 1995 a New York Kertesz è uno dei maestri della fotografia moderna.
Tre sono i periodi fondamentali del suo lavoro: in Ungheria tra il 1912 ed il 1925, in Francia tra il 1925 ed il 1936 e, negli Stati Uniti tra il 1936 ed il 1985. Ha creato immagini in bianco e nero, famose e celebri sono le sue famose distorsioni e, opere a colori.
Ha fotografato ampiamente per oltre 70 anni e ciò lo ha reso uno dei fotografi più prolifici. Pioniere del genere Street/Fotografia di strada, ha avuto anche un forte impatto su un’intera generazione di fotografi tra cui anche il grande Henri Cartier-Bresson. Alla domanda su Kertesz, Henri Cartier-Bresson mostrò la sua riverenza dicendo: “ Tutti noi dobbiamo qualcosa a Kertesz” aggiungendo “Qualunque cosa noi abbiamo fatto, Kertesz lo ha fatto prima.”.
Un altro famoso fotografo, Brassai, fu catturato dalle opere di Kertesz fino al punto di coglierne il senso primo ed ultimo della loro preziosità. “Kertesz ha due qualità che sono essenziali per un grande fotografo: un’insaziabile curiosità sul mondo, sulle persone e sulla vita ed un senso preciso della forma” Ogni fotografo di street che desideri saperne di più sui maestri della fotografia ha bisogno di conoscere le opere di Kertesz. Per far comprendere la sua preparazione e passione basti sapere che portava sempre con sé la sua macchina fotografia anche durante la Prima Guerra Mondiale.
Da un intervista leggiamo direttamente i suoi pensieri:
“ Portavo una macchina fotografica con me ovunque! Quando ero in guerra in prima linea, trascinavo i negativi su lastra in giro in una custodia di metallo. Gli altri ragazzi mi dicevano che ero pazzo, io rispondevo loro che se sopravvivevo a questa vita, allora avrei rappresentato il suo sviluppo, se non lo avessi fatto sarebbe stato come rinunciare alla mia stessa volontà di vivere. Mio fratello minore ebbe una grande idea e me la illustrò in una lettera che ricevetti al fronte. Prendere le lastre 9 per 12 centimetri e tagliarle in quattro. Ovviamente trascinandomi dietro lastre 9 per 12 centimetri massicce era a dir poco faticoso e mi procurava un dolore enorme alla schiena. Per rendere la mia macchina fotografica più portabile ebbi così l’idea geniale di tagliare le lastre di vetro in pezzi più piccoli, trasformando la mia macchina fotografica in portatile In un villaggio nottetempo andai a cercare un luogo completamente buio e con uno strumento per tagliare il vetro misi in una scatola non 12 lastre per fotografie ma ben 48. La macchina fotografica era così più piccola e ciò ha reso molto più agevole per me portarla in giro nello svolgimento delle mie attività quotidiane. Ciò significava che così piatta poteva scivolare in tasca. Parte del nostro reggimento fu fatto prigioniero dai russi, abbiamo fatto una marcia forzata per 48 ore non stop, con soli pochi minuti in piedi per strappare un po’ di sonno, per prendere qualche boccone di cibo, poi di nuovo in cammino. Io ogni tanto uscivo dai ranghi per scattare la colonna, poi rientavo nella stessa a marciare. Ero solo uno dei tanti. Non ero in grado di fotografare molto, mentre c’era la guerra ed intendo proprio quello che stava accadendo intorno a me. Siamo stati sempre in prima linea, o immediatamente dietro di essa.
Ho sempre avuto una macchina fotografica in miniatura con me nella parte anteriore della mia divisa, per avere la possibilità di strappare istantanee informali, a differenza dei fotografi professionisti che registravano gli avvenimenti della Guerra, sempre in giro con macchine fotografiche e cavalletti giganteschi che usavano solo quando le battaglie erano terminate, al fine di ottenere fotografie in loco che mostrassero la distruzione.
La vita è troppo breve. Non sappiamo mai quando stiamo per morire e spesso ritardiamo la realizzazione delle nostre passioni e sogni al posto di un lavoro stabile, redditizio, per una bella macchina, e una casa di tre camere da letto con staccionata bianca. Sono cresciuto nella campagna ungherese ed anche se ho goduto una vita tranquilla sapevo che c’era di più nella vita di quello che scorgevo in quegli orizzonti familiari. Uno dei miei sogni era di recarmi a Parigi ed anche se fui scoraggiato dalla mia famiglia decisi di andarci comunque. Raggiunsi questa città a 30 anni senza sapere il perché, l’unica cosa di cui ero certo era che dovevo andare proprio in quella città. Avevo una piccola somma di denaro per mantenermi per un po’ di tempo, avevo la mia potenza creatrice e soprattutto avevo i miei sogni. Eravamo in tre fratelli, mio padre era morto, mia madre desiderava che la famiglia restasse unita. Nel 1925 invece mi disse che se volevo ancora andare allora dovevo farlo subito lei non desiderava trattenermi. Aveva capito che l’Ungheria non era il posto giusto per fare quello che desideravo fare. Così un giorno mi disse: “Hai ragione figlio non c’è posto per te qui, quello che vuoi realizzare qui non è possibile. Vai ragazzo”. Sono partito e mi giocai tutto andando a Parigi e lasciando la mia casa, tuttavia con il duro lavoro, la perseveranza, e un po’ di fortuna, il mio lavoro cominciò a fruttare diffondendosi in giro per la capitale francese: le mie fotografie venivano portate letteralmente in giro, di mano in mano, nei caffè per esempio e così sempre più persone ebbero modo di conoscermi.
Non ho mai avuto il fiuto per gli affare e diedi via molte delle mie foto di allora a conoscenti ed amici. Oggi valgono quindici o ventimila dollari ma non ho guadagnato nulla dal mio lavoro di quel periodo. Dopo 14 mesi che ero a Parigi un commerciante organizzo una mostra ed a poco a poco ricevetti inviti ovunque, le cose stavano cominciando ad andare bene.
Ho portato avanti la mia ricerca tramite tutto quello che avevo assorbito a Budapest, il mio spirito si adattava perfettamente quello francese. Hanno scritto che quello che fotografavo era impregnato dello spirito di Parigi e non sapevano che per metà del mio lavoro dovevano ringraziare Parigi e per l’altra metà Budapest. Non tutti hanno il lusso o la possibilità di viaggiare o di perseguire i propri sogni alle loro condizioni tuttavia penso che indipendentemente dalla vostra posizione nella vita si ha sempre la possibilità di realizzare le proprie passioni.
Per un fotografo di street se avete una famiglia e dei bambini potrebbe essere difficile trasferirsi a Parigi e non sarà facile per chi ha un nucleo familiare da gestire incontrare altri fotografi di street locali, organizzare mostre, libri, sparando scatti per le strade quando si ha il tempo libero (pausa pranzo o nel fine settimana). Segui i tuoi sogni ed essi ti porteranno dove vorrai essere!”
Paola Palmaroli
Continua (vai alla parte 2)
Bistrot, Paris 1927. André Kertesz