Diane Arbus in New York, 1968. Photograph: Roz Kelly/Getty Images
In meno di dieci anni di lavoro Diane Arbus effettuò una profonda ricerca in campo fotografico rimettendo in gioco il fine stesso di questo linguaggio. Il suo lavoro si allontanò dalle istanze centrali nel lavoro delle generazioni precedenti dando la precedenza, per esempio, all’analisi psicologica più che alla precisione formale, al vissuto privato piuttosto che alle realtà sociali. Privilegiò ciò che permane nel tempo a tutto ciò che risulta effimero, temporaneo, come pure ricercò l’archetipo od il prototipo di un essere umano e del suo genere evitando modelli secondari o marginali, dando importanza al coraggio di guardare in faccia ogni soggetto incontrato e ritratto comunicando ed interagendo con esso piuttosto che ritenere sufficiente l’analisi e la sottigliezza di un’interpretazione privata di ogni tipo di empatia.
Vedere per guardare e conoscere sempre più a fondo e non solo registrare o fissare la superficie significante di un volto attraverso i suoi tratti somatici e, questa tensione si riconosce in ogni immagine di Diane Arbus, dissolvendo lo spartiacque tra soggetto e fotografo costituito dall’obiettivo sia meccanico che concettuale. Nacque da una famiglia ebrea benestante, il 14 marzo 1923, a New York City. Le sue doti artistiche emersero in giovane età, con disegni interessanti creati e dipinti mentre frequentava la scuola superiore. Nel 1941, sposò Allan Arbus, un attore americano che favorì il suo talento artistico sostenendo le sue potenzialità insegnandole l’uso del mezzo fotografico che diventerà il suo linguaggio elettivo.
Con rare eccezioni Diane Arbus si dedicò esclusivamente a ritrarre persone. La forza insita nei suoi ritratti dà la misura del grado di fiducia e di accettazione l’uno dell’altro, venendo meno il senso del rischio che una relazione profondamente empatica tra soggetto ripreso e fotografo può generare quando si comunica totalmente senza filtri la propria anima, il proprio essere. Diane Arbus era interessata alle persone che ritraeva per quello che erano e non come rappresentanti di posizioni filosofiche, di stili di vita o di tipi fisiologici, un unicum comprensivo di umanità e di soggettività che il corpo registrava e veicolava e lei fissava per sempre nei suoi scatti.
Le potentissime singole presenze che esistono e si manifestano nelle sue immagini trascendono e si astraggono dal ruolo stesso dei suoi soggetti. Infatti, le distinzioni per categorie cui i suoi soggetti andavano incontro normalmente grazie ai suoi ritratti sembravano esclusivamente travestimenti, costumi per nascondere allo spettatore casuale una verità più intima.
Pur continuando a crescere professionalmente alla fine degli anni sessanta la Arbus dovette affrontare alcune sfide personali. Il suo matrimonio con Allan Arbus si concluse nel 1969, affrontò e lottò contro la depressione continuando a lavorare ed a tenere conferenze. Si suicidò nel suo appartamento di New York City il 26 luglio 1971 all’età di 48 anni.
Il suo lavoro è un prezioso contributo ed un’analisi accurata di quello in cui lei per prima credeva, sosteneva e viveva: la libertà di essere se stessi, l’umanità che ricerca negli altri di capire le sue origini e la sua essenza, comprendendo nel suo campo visivo non solo la forma ma anche l’essere umano, mostrando rispetto e curiosità nei confronti di chi si mette a nudo, fissandolo con l’obiettivo costituito sia dagli occhi che dal mezzo fotografico, chi ha davanti a sé senza preconcetti, senza pregiudizi.
Felici che sia esistita una fotografa capace di mettersi in gioco fino al punto di mostrarci quello che siamo rivelando al soggetto ritratto sia il suo essere tanto quanto quello del fotografo. Ha scritto: ” I really love what you can’t see in a photograph. An actual physical darkness. And it’s very thrilling for me to see darkness again” (Mi piace molto quello che non si vede in una fotografia).
Un’oscurità fisica reale, tangibile. Ed è molto emozionante per me percepire con gli occhi di nuovo quel buio.” Se dovessimo mai trovare una definizione che comprenda il suo lavoro come fotografa potremmo dire che Diane Arbus ha donato con i suoi ritratti nuovi contorni e significato alle ombre che fanno parte della natura umana.
Non l’ha fatto cercando di illuminarle o di separarle dalla luce che le comprende ma di cogliere la loro intima capacità di essere parte di un tutto che percepiamo riduttivamente come oscurità ma, non dovremmo mai dimenticare che è semplicemente “umanità” ne più ne meno di ciò che risulta visibile e tanto appare rassicurante”.
Paola Palmaroli